L’Aconcagua è toccare il proprio limite, sentirlo, vederlo, prenderlo per mano!

Da sx Davide Pezzei, Chiara Reolon e Fabio De Mas (Luca Mares)
Da sx Davide Pezzei, Chiara Reolon e Fabio De Mas (Luca Mares)
Da sx Davide Pezzei, Chiara Reolon e Fabio De Mas (Luca Mares)

Che cos’è l’Aconcagua? L’Aconcagua è esoti- smo e magia, curiosità e mistero, terre ignote e voglia di viaggiare, lontananza e sogno, fa- tica e dolore, cielo e polvere fino ad immer- gersi nel blu, respirando le nuvole, sfiorando il sole e accarezzando le stelle.

BELLUNO – Aconcagua è Argentina, paese lontano, ma costruito da Italiani, grande, enorme, infinito, da esplorare, da toccare, da amare. Aconcagua è 28 ore di viaggio: Venezia, Madrid, Santiago del Cile, Mendoza, città fresca e anonima, gentile e verde nell’estate australe del nostro inverno. Aconcagua è peso e bagagli, troppi o troppo pochi, non sai mai bene se tutto è necessario o tutto è superfluo: viaggiare leggeri o comodi? È il peso dell’esistenza e della sicurezza a prevalere o la leggerezza dell’avventura? Si ma se non hai quello che ti serve a 6000 metri hai voglia di fare il filosofo e allora trascini borse e chili che spezzano bilance e schiene. Aconcagua è asfalto e cemento, su verso le montagne, tra valli e torrenti fino alla desolazione e alla dura bellezza dei primi contrafforti delle Ande, Punta dell’Inca povera e vera per uomini determinati o forse solo disperati. Pronti via, si parte. Zaino in spalla e scarpe grosse, su per Valle Vacas con muli veri e muli umani per trasportare l’intrasportabile: la tua casa per 18 giorni.Vento e polvere, sole cocente e il dolce mormorio dei ruscelli, fonte di gioia, d’acqua, refrigerio e piedi bagnati. Cinque, dieci, venti chilometri, non si arriva mai, col vento a tramortire i pensieri, con il sole a farli evaporare ed ecco finalmente Pampa di Lena, primo approdo, si inizia a fare confidenza con lo sporco e il sacco a pelo, ma poi via di nuovo, veloci per valli grigie e marroni, senza alberi e con poca vita solo qua e là segnate da un verde pallido, appena accennato di un erba povera, destinata a durare poco. Cinque ore e poi ancora una ed ecco, improvviso e maestoso, dietro una curva, l’Aconcagua. Così enorme e lontano, bianco che cade dalle nuvole, cattedrale incombente per sacerdoti speciali. Secondo accampamento: Casa de Piedra, asado e risate, arrieros e merda di mulo e primi timori.Troppo lontano, l’Aconcagua, troppo alto, troppa strada da fare e troppo deboli le nostre gambe. Canzoni all’ombra delle tende, partite a carte e nervosismo. L’Aconcagua è amicizia, è condivisione, è conoscere i tuoi compagni nei momenti peggiori, quando sono deboli e vulnerabili: la montagna rende umili o uccide. Ora si sale, su, passo dopo passo, l’aria rinfresca, ma il sole continua a martellare, il termometro è fermo tra i 25 e i 30 gradi, ma non doveva fare un freddo cane? Campo base a 4200 metri: tende e tanta gente, confusione e simulacri di comodità. I muli se ne vanno e rimangono gli uomini sempre più simili alle bestie, vita dura quassù, niente tenerezze, solo tosse e naso che sanguina, la testa che pesa e troppi pensieri, ma non è ancora il momento di provare la paura vera, solo che d’ora in poi si fa difficile. L’Aconcagua è sonno precario e cibo in scatola, sacchi a pelo e scoregge. Ecco la neve, la prima bufera, il vento che graffia il volto, ma il freddo ancora non c’è. Si sale piano, senza fretta, non bisogna disturbare gli spiriti della montagna, una bufera vera ti spazzerebbe via. Il passo allora si fa corto, sempre più corto e ripetitivo, non ci fai più caso alla lentezza, la lentezza, qui diviene virtù e necessità. Campo uno, ma non ci si ferma, torniamo domani, oggi si torna giù, ma quanto fiato sprecato salire per dover scendere, ma l’Aconcagua vuole così, si lascia andare solo poco alla volta, se si concedesse in un colpo solo, moriresti schiacciato dalla sua potenza. Il giorno appresso ancora neve e polvere, contraddizione di questi ghiaioni senza fine. Si fa in tempo a montare la tenda e poi tutti nei sacchi a pelo, mentre il vento porta neve e noia. Il tempo si ferma ed è inutile contare i minuti che non passano: hai voglia di pensare, di sognare, il pomeriggio è fermo e cerchi inutilmente di scuoterlo via come scuoti la tenda per liberarla dalla neve. Dormi? No, penso! A cosa? A casa, alla morosa, a una doccia calda, al mio letto, a perché sono qui a soffrire vicino ad un amico puzzolente come me, invece di essere su di un divano candido di comodità e giornali. Ma la notte porta le stelle e le stelle il sereno e il sereno scaccia la malinconia. L’Aconcagua è caffè e acqua imbevibile, dissenteria e vomito, è la luce magica dell’alba che accarezza le Ande, fa d’argento le cime e ti infonde vita e gioia. Per questi momenti, per questi panorami, per sentirmi vivo ed emozionarmi, ecco perché sono qui.

Da sx Chiara Reolon intervista Fabio De Mas presso il negozio Robi Sport (Luca Mares)
Da sx Chiara Reolon intervista Fabio De Mas presso il negozio Robi Sport (Luca Mares)

Da qui in poi siamo ospiti degli dei della montagna e allora si prega mentre si cammina: fammi avere abbastanza forza, o Aconcagua, sii gentile con chi ti vuole conoscere non certo conquistare. L’uomo non conquista mai le montagne, forse, a volte, se esse lo sopportano, può riuscire a toccarle, ad amarle, quasi a comprenderle, ma è sempre la montagna a decidere. Campo 2, 5500 metri: fin qui siamo arrivati, ma non è abbastanza, non è mai abbastanza, più in alto si va, e più non basta mai, sempre più su si vorrebbe andare, fino a bruciarsi le ali. Bere, bere e ancora bere. Bere e pisciare, fuori e in tenda, nella apposita bottiglia. Ma che schifo!! D’accordo, ma prova tu ad uscire fuori con meno 15 gradi, e vedrai che la tua purezza in fatti di igiene si allenta e si fa più flessibile e comprensiva. Non ho più fame e non riesco più a bere acqua di neve riempita di schifezze per avere una parvenza di gusto e di sali nutritivi.Thè, caffè, erbe digestive, camomilla, aranciata in polvere, succhi di frutta in polvere, latte in polvere, ho bevuto tutto e il mio stomaco mi dice basta così, per favore. Si parte di nuovo, l’Aconcagua è pazienza e tenacia: 5 ore per 500 metri di dislivello, ma ecco campo tre e finalmente la vetta sembra quasi vicina, ma c’è quel quasi in mezzo. 6000 metri e solo allacciarsi le scarpe toglie il fiato. Ora l’Aconcagua è paura. Di non farcela, di stare male, di svenire, di dover scendere di corsa. Domani ci proviamo. Domani è il gran giorno. Si ma il tempo? Hanno previsto neve, vento sole, freddo e caldo, tutto e il suo contrario. Così non si dorme, ma si pensa solo. Stai male? Si sto male, mal di testa e bestemmie, paracetamolo e speranze: vedrai che passa, ma intanto sono le ore che passano e il sonno non arriva. Che ore sono? Le tre, tra un ora e mezza ci si alza, ma ora chiudi gli occhi, una ora di sonno è molto più di niente. Ecco, ecco. Le prime luci delle lampade frontali, le prime urla. Hai controllato la roba? Hai messo la crema? I ramponi sono a posto? Il cervello è connesso? Forse dopo il caffè. Ora si è solo automi. C’è vento, ma proviamo lo stesso, le stelle in cielo sono infinite e possono cullare ancora un po’ il nostro sogno: l’Aconcagua è oggi. Si sale, ma che fatica, perché il fiato è così corto? Il guanto scivola giù ed è inutile tentare di fermarlo con il pensiero, solo una roccia ci riesce, per fortuna. Parolacce e imprecazioni, voi andate che io devo recuperarlo. La magia dell’alba mi sorprende come sempre, illumina la neve e i nostri visi tirati, smagriti, irsuti, brutti. L’Aconcagua è fatica e sporco che abbruttisce il fisico e fa pesante la mente. Rifugio indipendenza, ma il rifugio dov’è? Quelle tre assi di legno? Mah… Come stai? Bene ma andiamo piano. Il traverso è lungo e sotto il vento gelido, ma perché ci siamo fermati? Dieci minuti, venti, trenta, via, via andiamo via, altrimenti ci congeliamo: volevi il freddo? Eccolo. Ma poi il vento smette e il freddo sparisce, non alzare lo sguardo, testa bassa e camminare, venti passi e riposo. Ma quanto manca? A che altezza siamo? Questa è la Cueva, siamo a 6700 metri. Fin qui siamo arrivati, ma non basta. Chiudo gli occhi e mi addormento. Per quanto? Un’ora? Un minuto? Saranno stati trenta secondi scarsi, ma mi sono sembrati una eternità. Lasciamo qui gli zaini, non servono più, il cielo è sereno e così rimarrà, in più manca poco alla vetta. Poco? Inizia la Canaleta. Cinque passi e sono esausto, come è possibile? Guardo gli altri e vedo la stessa stanchezza e l’inizio della disperazione. Su, forza, altri cinque passi e mi stendo pesante sulla neve. Io mi fermo qui, basta. Su tirati su, dai che ci siamo, manca poco, fatti forza. Manca poco un cazzo. L’Aconcagua è questo, è fatica assurda, è la gola bruciata alla ricerca di ossigeno, è qualche goccia di succo subito rigettata, è vertigine. Arriva in cima alla montagna, papà! Mi alzo allora, altri sei passi, sette, otto, vai che ci sono, e poi mi ritrovo nuovamente disteso, senza fiato, con gli occhi bassi incollati al terreno. L’Aconcagua è toccare il proprio limite, sentirlo, vederlo, prenderlo per mano e trascinarlo sei passi più in su, sei maledetti passi più in su e poi crollare. Il cielo è sereno, non fa troppo freddo, hai tutto il tempo che vuoi, mi dico e intanto prendo fiato, ma non devo dormire. Altri cinque passi, dai che ora si manca poco. Mancherà pure poco ma per me è troppo. Ogni cellula del mio corpo mi implora di fermarmi, il cervello mi ordina di farlo, ma non posso fermarmi proprio qui. No, non posso proprio. Arriva in cima, papà. Altri tre passi e poi altri tre ancora. Ma quella cos’è? È la croce? Si è la croce che ho visto in tante foto della cima, e vicino alla croce ci sono Davide, Lelio, Daniele, che alzano le braccia, che mi dicono bravo. Il vento ora è dolce e mi ricopre di nuvole leggere. Piango, o più probabilmente è l’aria che mi fa lacrimare, mentre abbraccio e bacio la croce. Sono in mezzo al cielo, a guardare il mondo dall’alto. A usurpare il posto riservato agli dei e, per qualche secondo mi sento uno di loro, ma subito il dolore alle mani, al viso, alle labbra, alle gambe, gli occhi gonfi dietro gli occhiali, il fiato scarso che torna a fatica mi ricordano che sono solo un piccolo uomo che ha avuto la fortuna e il coraggio di inseguire un piccolo sogno e di scalarlo e ora l’Aconcagua sono io, sono io alto 6962 metri più i miei 175 cm. Sali in cima alla montagna papà. Fatto, piccola mia, ora posso tornare da te.

2 Commenti

  1. Caro Fabio; desidero solamente ringraziarti per le emozioni che hai saputo trasmettermi durante i report quotidiani dall’Aconcagua ed infine per quanto hai pubblicato ieri. Mi sento anche di dirti sinceramente quanto apprezzo la tua sensibilità d’animo ed il tuo modo modesto ma anche preciso e delicato che hai nel descrivere ciò che hai vissuto, e ciò che vivi . Tu sai quanto è facile per uno che scrive di montagna cadere nella retorica, tu non lo fai mai soprattutto perchè una parte importante del tuo animo vive in modo diretto e completo le esperienze , a volte dure, che la montagna offre. Spero di leggerti ancora e di incontrarti presto. Ti ringrazio anche per la sincera e solida amicizia con Davide. Un abbraccio Daniele Pezzei

  2. Belle parole, scritte bene. Mi sono un po’ commosso. Ti faccio ancora i complimenti per la tua impresa!!

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