

SAGROGNA – L’umile terra bellunese, soggiogata da un clima pittoresco con sei mesi d’inverno e sei di fresco, non fu mai votata all’agricoltura. Il foraggio e, più in alto, il pascolo hanno nutrito sane e grasse vacche da latte, ma, per il resto, erano richiesti tanto lavoro e tanta pazienza. Alcuni prodotti, in vero, come i fagioli e il granoturco, sono da sempre risultati pregevoli, ma il vino no.
Eppure fino a qualche decennio fa non era raro imbattersi in ordinati piccoli vigneti ad uso familiare, perché quel vino che si produceva, imbevibile per i cultori, per noi era buonissimo.
«L’è aspro ma l’è san» dicevano gli uomini facendo schioccare la lingua che si tingeva di viola.
E se chiedevi che vino fosse ti rispondevano «Clinto!». In realtà proveniva da uve di ogni tipo: bacò, americana, isabella, bianca, però tutto fa clinto!
Oggi questa viticoltura di famiglia è stata quasi abbandonata, eppure si può trovare ancora qualche nostalgico o, forse, pioniere di nuove economie, che si dedica con passione ed amore alla cura delle viti. E questo è il periodo della potatura, del “zerpir”. Un’arte conosciuta da tutti i nostri nonni, ma quasi scomparsa con loro. Osserviamo con rispettosa attenzione le fasi di lavorazione. Un primo grossolano compito consiste nel districare i lunghissimi tralci che vengono drasticamente accorciati. Quindi, con occhio esperto, il potatore segue il tralcio che dovrà fruttificare fino a lasciargli poche gemme soltanto. E così procedendo, l’ingarbugliato filare diviene sparuto come se fosse passato il barbiere dell’esercito. «Lasciami povero e ti farò ricco» sentenzia il potatore.
A questo punto toglie tutti i bastoncini, le “fraschete”, che servono da distanziatori tra i tre fili di ferro. Sostituisce qua e là i vecchi pali con quelli forti e nuovi di legno d’acacia. Quando i pali sono sistemati, e non è facile se il terreno è ancora gelato, tende e fissa i fili di ferro.
Ora è il momento della legatura e si comprende perché ogni tanto, tra le viti, ci sia un salice. Esso offre i vimini, i “sacolet”, che opportunamente tagliati, attorcigliati e annodati costituiscono il naturale laccio. Non è facile legare un vimine e chi ci riesce è bravo. Il nostro potatore lo è veramente e dà spettacolo di destrezza e ordine, sistemando ad arco due o tre tralci per ogni vite.
Con energia l’uomo lega i pali ai fili di ferro con i vimini più grossi, le “sache”, proprio quelle che usavano gli zattieri del Piave nel loro antico mestiere oggi scomparso. Valuta bene il numero delle “fraschete” , se non sono sufficienti bisognerà procurarne di nuove, meglio se di legno di “gardivela”.
Le “fraschete” vengono sistemate ortogonalmente ai fili e fissate con i vimini. Pali, fili, “fraschette”, viti sì, è tutto a posto. Anche per questa imminente primavera il lavoro è compiuto ed ora la natura farà il suo corso. Ringraziamo il potatore per l’esperienza che ci ha trasmesso con la promessa di ritrovarci per la vendemmia e per fare il vino. Quale? Clinto, naturalmente.
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