

SAGROGNA – Pomeriggio d’inverno, cielo terso, alcuni gradi sotto lo zero: è tempo di andare sulle Grave del Piave a cercare quella letizia che le gambe stanche non permettono più di trovare sulle creste dei monti. La solitudine e il silenzio sono i compagni del cammino e ci lasciano scorgere realtà che altrimenti passerebbero inosservate. Si scoprono le variegate figure della legna sradicata dal vento o dalla furia di una piena improvvisa.
Legna di “muga” ripulita dalla scorza ruvida, è ora liscia, bianca, compatta. I rami più piccoli si sono spezzati e formano con il tronco un Cristo dolente. Un’altra “muga” è appena caduta carica di pigne e aghi pungenti ed emana tutt’intorno un profumo benefico al respiro. Il salice, dominatore di questo regno, è ovunque, vinco neonato flessibile al soffio o vecchio e maestoso gruppo di tronchi, muschioso alla base e su e su sempre più fresco, pronto ad esporre i primi timidi gattici. Ma molti salici sono caduti da tempo e i fusti sono ossi levigati di animali sconosciuti. Un ramo di acacia è andato a cadere fra i sassi; alcuni di questi, i più piccoli, si sono incastonati nella corteccia come pietre preziose. Un ceppo di frassino guardato da un’angolatura dà vita a due sembianze umane che tendono le braccia per cercarsi; visto da un altro lato sembra un portafiori o un attaccapanni se solo si taglia via la radice di traverso.
La fantasia rincorre la maestosità della natura, ma questa è più veloce e sorprende ancora. Rami, fusti, ceppi si manifestano indicando mille interpretazioni.

Questi stessi legni che nutrono quel briciolo di fantasia che c’è in noi furono, un tempo, sostentamento per le nostre famiglie. Con la roncola appesa ad un gancio metallico sistemato sul retro della cintura, il seghetto in spalla e il carretto condotto a mano, il nonno si recava di buon’ora sulle Grave cercando di accaparrarsi per primo la legna più comoda ed abbondante. Lavorava sodo tutta la mattina per ripulirla dalla sabbia e dal limo, segandola a multipli di trenta, caricandola sul carretto e trascinandola a casa. E noi ragazzi a spingere su per la riva con le mani gelate e sudati di fatica. Nel pomeriggio il nonno segava la legna del suo bottino in pezzi da trenta centimetri stimati ad occhio, spaccava con la scure i più grossi, edificava una perfetta e solida catasta. E l’indomani ricominciava. E così giorno dopo giorno per l’intero inverno. Quintali di legna finivano nella cucina economica riscaldando la casa e cuocendo la polenta. Legna utile, legna gratuita, legna che quasi chiedeva di essere salvata dalle acque del Piave per trovar giusto ricovero nelle case.
Immersi in queste riflessioni sul passato che, al solito, si sfronda delle fatiche per lasciarci soltanto la tenerezza continuiamo a bearci del generoso presente. Ma ci accorgiamo di non essere soli. Un uomo con sega ed accetta sta recuperando un po’ di legna.
“Questa è per far fuoco, come ho imparato da mio padre – ci dice – questa invece è per bellezza”, e indica delle forme contorte di raro fascino.
Nella sua frase concisa la sintesi del passato e del presente. Gli scheletri di legna lisciata dal Piave, un tempo ricchezza per coloro che sapevano raccoglierli per riscaldare la casa, oggi divengono sculture naturali che possono offrirci un diverso calore. (Mariateresa Broi)
Articolo fotografico Tiellephoto Press al link http://www.tiellephoto.it/it/B_articolo.asp?id_articolo=1025
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